La storia di quattro generazioni, in cui le leggi che regolano i legami tra madri e figlie, tra padri e figli, sono ribaltate fin dal primo giorno, dando luogo a destini zoppi di coppie spaiate e figlie abbandonate ma anche ad amori assoluti e racconti di biciclette, sogni tramandati come tesori, animali. È la storia descritta nel libro Il contrario delle lucertole di Erika Bianchi di cui vi proponiamo un estratto:
«Ti ricordi come mi chiamavate da piccola? Cecertola, perché le lucertole erano i miei animali preferiti. Pensavo che nelle code staccate finissero anche tutti i cattivi pensieri, le malattie, le cose brutte che ogni lucertola voleva lasciarsi alle spalle. Ce lo avevi raccontato tu, credo. Ogni coda nuova era una nuova occasione di felicità.
Non sai quanto vorrei essere una lucertola. Liberarmi della mia coda infetta e lasciarne crescere un’altra; liberare te, e Marta. Ma vedi, papà, io penso che noi siamo proprio il contrario delle lucertole. Perché il pezzo di coda che abbiamo perso, a noi non solo non ci ricresce, ma continua a farci male, come l’arto fantasma degli amputati. Perdonami, papà. Me ne vado per un po’.
Ho fame.
Ho cercato in rete la parola «fame» per vederla tradotta in tutte le lingue del mondo. Tutte le lingue del mondo esprimono il concetto di fame. Fame è una parola necessaria alla sopravvivenza. Nella maggior parte delle lingue scritte in alfabeti per me decifrabili, la parola fame sembra carica di rancore onomatopeico. Hunger, hungern, honger, hungra. Fome in portoghese. La mia preferita è hambre, che ti sbrana le viscere e ti fa digrignare i denti. In italiano «fame» ha una certa urgenza animalesca, come un cane che abbaia. O come un gatto che soffia, con quella effe dei denti voraci sulle labbra.
L’unica lingua in cui la fame si rammollisce è il francese. La faim. Quando ero piccola non distinguevo la faim da la femme, e Isabelle mi correggeva con una fame tutta di naso. «Femme. Con la a. E già che ci sei, apri quella bocca e mangia qualcosa». Però, confondere la femme et la faim. Profetico, da parte mia.
Isabelle era magra, e io volevo essere più magra di lei. Era madrelingua francese, e io, a parte la questione della femme e della faim, volevo parlare il francese meglio di lei. Ci odiava, e io volevo che il mio odio fosse più grande del suo. Volevo essere diversa da lei, ma di una diversità che potesse riconoscere, e dire: «Cecilia ha qualcosa in più di me. È persino più arrabbiata, più indipendente, più determinata».
Quel persino mi sembrava importantissimo.»
Il libro: la trama
Dinard, costa bretone, 1948. È il luglio leggendario in cui Gino Bartali scala la Francia a pedalate e fa sognare l’Italia appena uscita dagli orrori della guerra. Tra i tecnici al seguito del campione c’è Zaro Checcacci, giovane meccanico nativo – come “Ginettaccio” – di Ponte a Ema. Sotto quel cielo straniero, nell’euforia di una tappa conquistata sul traguardo, Zaro incontra Lena, cameriera appena quindicenne. Nove mesi più tardi nascerà Isabelle. Ponte a Ema, 1959. Nell’officina di biciclette di Zaro, ormai sposato e padre di un bambino, Nanni, si presentano Lena e Isabelle, che ha ormai 10 anni. Zaro non vorrà mai riconoscerla come figlia, eppure tra Isabelle e Nanni si instaurerà un rapporto di fratellanza profonda. Vent’anni dopo, mentre soffia il vento della contestazione, Isabelle è una giovane donna che non è mai voluta salire su una bicicletta. Ma è sopravvissuta all’infanzia e dà alla luce due bambine, destinate a portare nel loro destino e nel loro stesso corpo le tracce della storia che le precede…
Narrata a ritroso, dai giorni nostri alla notte in cui tutto ebbe inizio, prende colore in questo romanzo la storia di quattro generazioni. Nelle pagine di questo libro, che a tratti hanno l’andamento ventoso e travolgente delle migliori avventure umane e altrove si soffermano su poche immagini come fotogrammi, Erika Bianchi si mostra una scrittrice matura, forte e sorprendente.